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25 Apr 2018

Ieri quinta sessione del progetto della Fondazione Dinamo insieme a Marco Spissu e due ragazzi del Commando Dinamo

Il tifo come stile di vita, come massima espressione di una passione che porta a fare tanti sacrifici ma anche a vivere emozioni incredibili. È stato questo il tema della quinta sessione di Future Champions, il progetto targato Fondazione Dinamo in collaborazione con il Centro di Giustizia Minorile e il Liceo Scientifico Sportivo “Paglietti” di Porto Torres. Ieri mattina, nella cornice del PalaSerradimigni, i ragazzi coinvolti nel progetto hanno incontrato il play biancoblu Marco Spissu e due ragazzi del Commando Ultras, Roberto Scotto e Alessio Pala, discutendo insieme a loro sul significato del tifo, tema quanto mai attuale. A ispirare i ragazzi durante la discussione le suggestive immagini della coreografia realizzata dai ragazzi del gruppo di tifo organizzato Orgoglio Biancoblu in occasione della sfida contro la Reyer Venezia di domenica scorsa: un inno all’appartenenza e all’identità, con il PalaSerradimigni invaso dai quattro mori, e le emozionanti parole di Grazia Deledda accompagnate dal suono inconfondibile delle launeddas.

Essere ultras significa sacrificio e appartenenza, significa dedicare forze ed energie ogni domenica per sostenere la squadra e coordinare il gruppo di tifo organizzato, pianificare trasferte, seguire i propri beniamini. Lo sanno bene Alessio Pala e Roberto Scotto, da anni nel Commando Ultras -che lo scorso anno ha festeggiato i 15 anni di attività- che hanno seguito la Dinamo su tanti campi in Italia e in Europa. “Potremmo raccontare tante, tantissime avventure. Tante volte abbiamo seguito la squadra anche se eravamo in due o poco più: tra i ricordi più belli c’è sicuramente quella Gara 7 di semifinale scudetto a Milano che ci ha regalato il biglietto per la finale con Reggio. Dopo la sconfitta in Gara 6 in casa nostra vigeva un clima di grande sconforto, non ci credeva nessuno: ma noi ci siamo detti che era il caso di andare a sostenere i ragazzi _ha raccontato Roberto_. Quindi pronti via abbiamo organizzato la trasferta, ricordo che era un mercoledì, in fretta e furia: non ce ne siamo mai pentiti, in tanti ci hanno seguito, molti ci hanno raggiunto a Milano. Al Forum è stato surreale: eravamo 200 tifosi sardi contro 12000, ma alla fine abbiamo vinto noi”. Alessio si è avvicinato tardi al basket: “Devo essere onesto, sono sempre stato più vicino al calcio poi un giorno quasi per caso sono venuto al Palazzetto, grazie a un’amica che aveva un biglietto in più. È stata un colpo di fulmine, mi piace dire che il celebre coro “un giorno all’improvviso/ m’innamorai di te” racconta un po’ la mia storia. Essere ultras mi ha avvicinato a un mondo meraviglioso, dove il tifo -quello sano e positivo, lontano dalla violenza- è un motore che non si arresta mai ed è l’espressione più bella dello sport. Penso al gemellaggio con le altre tifoserie, al fare gruppo, alla nascita di tanti legami. Un ricordo indelebile? Dopo Gara 7 a Reggio Emilia, quella in cui abbiamo vinto lo scudetto, i ragazzi della tifoseria di Reggio Emilia ci hanno invitato a cena: non so sinceramente dopo una sconfitta con una posta così alta in palio chi l’avrebbe fatto. È stata una cosa incredibile”.

Essere tifosi è un qualcosa che trascende qualsiasi cosa, che resta dentro: lo sa bene Marco Spissu, sassarese doc, che è passato dall’essere tifoso della sua squadra del cuore a poter indossare la maglia biancoblu e onorarla sul campo, realizzando un vero sogno di vita. “Io forse son più tifoso degli ultras _racconta Marco_ seguo la Dinamo da quanto ero piccolissimo e, grazie a mia zia, fin da bambino andavo in trasferta a seguire la squadra. Ricordo in particolare due trasferte, una a Montecatini e una Reggio Emilia: a Montacatini ero piccolo, forse non avevo 11 anni, siamo partiti la mattina presto per raggiungere la squadra e dopo la partita, senza dormire, siamo andati diretti all’aeroporto per tornare a casa. Sono cose che ti restano dentro, ti permettono di fare amicizie vere e alimentano una passione che non ha eguali. Io sono cresciuto dentro questo Palazzetto, ho iniziato pulendo il campo: ricordo che il giorno della partita venivo qui dalle due del pomeriggio, tiravo un po’ a canestro, aspettavo che arrivassero i giocatori per potergli passare la palla durante il riscaldamento. Ho fatto tutto il mio percorso con le giovanili fino ad arrivare in prima squadra, ho anche esordito sul campo…che emozione! Poi son andato fuori per quattro anni, a farmi le ossa in serie A2, e oggi sono tornato nella mia città. È una cosa che non ha prezzo. Ogni volta che calco questo campo mi assalgono milioni di ricordi, dai primi allenamenti, alle partite con le giovanili fino ad oggi. So di essere un privilegiato, ho avuto la fortuna di realizzare il mio sogno e viverlo, consapevole che ho ancora tanta strada da fare. Io questa maglia non la tolgo mai, ce l’ho addosso, ce l’ho tatuata dentro fin da quando ero bambino. Ci sono altri giocatori che come me hanno fatto questo cammino, penso a Emanuele Rotondo, a Massimo Chessa: giocare nella propria città, difendere i colori della tua squadra è un privilegio. Ti ispira ogni giorno a dare quel qualcosa in più che avresti voluto dessero i tuoi beniamini quando eri solo un ragazzino che tifava sugli spalti. È un onore e un dovere”.

Tifo positivo, tifo come ragione di vita e massima espressione della passione: nella pallacanestro il fairplay non manca e gli esempi in casa Dinamo Banco di Sardegna sono tanti. Come il terzo tempo nella Club House societaria organizzato domenica scorsa dopo la sfida con i campioni d’Italia della Reyer, appuntamento che, da tanti anni, si ripete spesso con le diverse squadre che hanno calcato il parquet sassarese. E l’iniziativa “Cofani aperti” nata spontaneamente dai tifosi del Palazzetto: dopo i lunch match l’appuntamento è in piazzale Segni dove ognuno porta qualcosa da mangiare o da bere e si pranza tutti insieme, nel segno della passione biancoblu. Spesso ospiti di Cofani aperti sono i giocatori, i tifosi ospiti e gli avversari. Un inno al tifo positivo che non conosce campanilismi o differenze: si lotta sul campo per quaranta minuti ma poi si è amici, ci si rispetta, si condivide lo stesso amore per questo sport meraviglioso che è il basket.

A chiudere l’incontro e ispirare i ragazzi del progetto, rapiti e incuriositi dai racconti della sessione, le parole di MiniSpì, un ragazzo con un sogno che, grazie al duro lavoro e al sacrificio, lo ha realizzato ed è passato dall’osservare i giocatori sul campo e seguire la squadra in trasferta a indossare ogni domenica indossa la maglia bianca o blu numero 0. “Se avete un sogno non fermatevi alle prime difficoltà, bisogna faticare nella vita come nello sport. Ho solo 23 anni, non voglio e non posso parlare da uomo vissuto, ma ho imparato una cosa: le difficoltà fanno parte del cammino di ognuno di noi. Ma con la forza e la determinazione i sogni si possono avverare. E -credetemi- non esiste una felicità più grande”.

Sassari, 25 aprile 2018

Ufficio Stampa

Dinamo Banco di Sardegna